Sabato scorso, prima di uscire, ho lavato la bici.
Ho smontato la ruota anteriore e nel sollevarla mi sono stupito per la milionesima volta di quanto sia leggera.
E’ una leggerezza che l’occhio non riesce a far percepire al cervello e questa storia va avanti da anni.
Per ogni bici.
Per ogni ruota.
E’ assurdo come l’esilità della ruota anteriore sia solo apparente.
Ho guardato i raggi e mi sono fermato un attimo.
Lo ammetto: di tutti i particolari della bici sono quelli a cui presto meno attenzione.
Cioè, so benissimo a cosa servono, ma fanno il loro dovere senza alcun “effetto wow”.
Insomma, sono sotto gli occhi di tutti, fanno un lavoro assurdo, ogni raggio eguale all’altro secondo i criteri, la logica e il mestiere (magico!) di chi ha costruito quella ruota.
Sono ancora lì che li guardo.
Sottili, schiacciati, affusolati, scuri e tesi.
Anzi, protesi dal mozzo verso il cerchio e viceversa, con uno sforzo costante e tenace.
Un collegamento di metallo fra la strada e la bici che si ripartisce in 24 o 28 direzioni, tutte eguali, tutte bilanciate e senza manie di protagonismo alcuno.
E penso a tutte le volte che ho guardato il mozzo da questa posizione.
Dalla posizione di chi si alza sui pedali per chiedere quello sforzo in più alle proprie gambe e alla propria bici, accelerando, rilanciando oppure lottando contro la gravità, quando si riesce quasi a contare i raggi, uno ad uno, mentre la ruota anteriore gira.
E poi spariscono, i raggi, quando la velocità li fa assomigliare ad un alone scuro.
Sembra di galleggiare nell’aria.

Mi stupisce la leggerezza di questi elementi solidi come roccia.

Mi emoziona l’idea che le ruote scorrano veloci in avanti.
Che le gomme abbiano un contatto rapidissimo con la strada.
Che tutta l’azione, la mia forza e il mio desiderio di essere un po’ più veloce di ieri significhi vedere e sentire le ruote sibilare sull’asfalto.
E in quei momenti la velocità diventa il solo bene da proteggere.
L’unica legge ammessa.
L’unica ragione per andare in bici su strada.
Diventare più veloci.
Sentirsi sospesi sulla bici, fluttuare sulla strada, non percepire più le rugosità dell’asfalto, ma solo la velocità.

Tutto questo mi fa capire che se voglio sentirmi forte e stabile devo andare più veloce.

Un equilibrio dinamico.
Un controsenso, anzi, il controsenso della bici e della vita stessa.
Corro per restare in equilibrio.
Vado più veloce per essere più stabile.

Protesi verso il cerchio i raggi non cercano gloria, né vogliono essere guardati, anzi, mi chiedono di diventare invisibili, di trasformarsi nel sibilo più potente di cui io sia capace.
E andare veloce, più veloce e ancora di più.
Tutto quello che devo fare è far girare queste ruote il più veloce possibile.

Mi sbrigo a risciacquare ruote e telaio, mangio un boccone e me ne vado in bici.

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