Qualcosa non va nel ciclismo moderno?
Ok, da sempre ci sono corridori che sopportano la pressione meglio di altri.
Da sempre ci sono atleti che si ritirano “presto” e altri che hanno carriere più lunghe, non solo nel ciclismo.

Qualcosa non va nel ciclismo moderno
Foto A.S.O. – Pauline Ballet



Ma a ben guardare, negli ultimi anni, sono diventati piuttosto frequenti i casi in cui corridori relativamente giovani vanno in “crisi”.
Dopo il ritiro a sorpresa di Tom Dumoulin si è aperto il dibattito e noi abbiamo cercato di approfondire la questione.

Nell’articolo qui sotto ne abbiamo parlato con Luca Guercilena, General Manager del Team Trek-Segafredo, che ha sviscerato una serie di aspetti molto interessanti.

Qualcosa non va nel ciclismo moderno? Ne abbiamo parlato con Luca Guercilena

Ma dopo l’intervista con Guercilena, ci è sembrato giusto approfondire ancora di più l’argomento, questa volta ascoltando la voce di un corridore, anzi, in questo caso di un ex corridore che ha lasciato l’attività solo l’anno scorso.

Così abbiamo contattato Matteo Montaguti, che è stato professionista per ben 12 anni (dal 2008 al 2019), ha corso vicino a grandi campioni e ha un punto di vista variegato, avendo militato in team di diverso livello, anche all’estero.

Qualcosa non va nel ciclismo moderno
Matteo Montaguti ai tempi dell’AG2R-La Mondiale

– Matteo, come è cambiato il ciclismo nei 12 anni in cui sei stato professionista?
– Concordo con molte delle cose già dette da Guercilena.
Il cambiamento più grande che ho percepito sta nel fatto che oggi tutto si è estremizzato: ogni marchio ti propone due o tre tipi di bici (aero, salita, crono) dove devi essere posizionato al meglio, le corse a tappe si giocano sul filo dei secondi, la preparazione è sempre più scientifica e programmata.

Per ottenere il risultato non puoi lasciare niente al caso e questo, inevitabilmente, provoca uno stress inimmaginabile, che non tutti sono in grado di gestire.

Qualcosa non va nel ciclismo moderno
Foto facebook.com/StagesCycling

– Quindi la pressione è legata essenzialmente al risultato?
– Certo. Il ciclismo professionistico, purtroppo, non si fa con la sola passione.
La passione serve ad arrivare a fare il ciclista per lavoro e a farti svegliare ogni mattina pronto a fare sacrifici, ma poi si devono considerare altri aspetti.
Nel ciclismo, da sempre, quello che conta è il risultato.
Io, da gregario, potevo essere soddisfatto di aver svolto bene il mio lavoro, ma se il nostro capitano non otteneva un buon risultato finale, tutto era vanificato.

La ricerca del risultato ti dà la motivazione per fare sacrifici e andare avanti ma, allo stesso tempo, genera una grande pressione su tutti i componenti del team (compresi manager, tecnici e meccanici), ma in special modo sul capitano.
Quando i risultati non arrivano, il rischio è che la pressione ti possa schiacciare e anche la motivazione possa venire meno.

Qualcosa non va nel ciclismo moderno
La passione è determinante per arrivare a certi livelli, ma da Pro’ non basta più… Foto instagram.com/matteomontaguti

Se avete notato, infatti, le squadre che sono abituate ad ottenere risultati lo fanno con continuità, quelle che li ottengono di rado entrano in una sorta di circolo vizioso da cui è difficile uscire.
Meno risultati, uguale più pressione, meno motivazione e quindi più difficoltà ad andare forte.
Una squadra può essere bravissima da un punto di vista mediatico e a “vendersi” tramite i social, ma se i risultati non arrivano, iniziano i problemi.

– I capitani, dunque, è normale che siano più sotto pressione?
Sicuramente sì, perché sono quelli su cui la squadra ripone più aspettative per ottenere un buon risultato in gara.
In realtà, però, tutti i corridori sono sempre e costantemente sotto pressione, anche se per motivazioni diverse: ognuno, in un modo o nell’altro, ha un risultato a cui puntare.
Il capitano, che deve cercare la vittoria, il gregario che deve svolgere al meglio il suo lavoro, il corridore di medio livello che deve ottenere buoni risultati per migliorare o strappare un contratto per l’anno successivo.

Io, se non ero al top, mi sentivo sotto pressione perché non sapevo se la squadra mi avrebbe convocato o meno per una corsa importante.
Il capitano è stressato perché sa che, quando si presenta al via, gli si chiede sempre il risultato.

Inoltre, se un capitano non ottiene i risultati sperati, ad “andarci di mezzo” è tutta la squadra. Senza considerare lo stress che un corridore d’elite deve subire da un punto di vista mediatico, soprattutto se non va come ci si aspetta.
Ecco, questa è una cosa che i gregari subiscono di meno…

Poi molto dipende anche dal carattere delle persone e dalle aspettative che si hanno.
Io, ad esempio, mi mettevo molta pressione da solo, perché se non andavo come speravo sapevo di non essere utile alla squadra.

– Con Guercilena abbiamo parlato di allenamenti sempre più scientifici e di stagioni in cui non si stacca più. Quanto pesa questo aspetto?
– Beh, io sono passato professionista praticamente senza un vero preparatore.
Oggi il livello è talmente alto che una cosa del genere è impensabile.
Tutti vanno più forte e se vuoi stare al passo devi eseguire allenamenti più intensi, più tecnici, diciamo più scientifici.

Fino a qualche anno fa capitava spesso di allenarsi insieme ad altri professionisti, decidendo sul momento che tipo di lavori svolgere. Oggi quasi tutti si allenano da soli, perché ogni giorno della settimana hai un lavoro specifico da seguire.

A tutto questo si aggiunge il fatto che non si stacca più, nel senso che già a inizio stagione hai una tabella indicativa lunga 12 mesi.
Anche se ci sono momenti di scarico programmato, devi essere sempre sul pezzo e quello che diventa davvero difficile è “staccare di testa”.
In pochi ci riescono veramente e sono quelli in grado di fare la differenza.
Dal mio punto di vista è stato uno degli aspetti che ha pesato più di tutti sulla decisione di smettere.

Foto facebook.com/TrekSegafredo

– Che mi dici dei social? Quanto incidono sullo stress aggiuntivo di un corridore?
– Secondo me sono utili, ma anche in questo caso l’aspetto negativo è l’estremizzazione.
Non parlo tanto di stress generato da commenti e giudizi altrui, ma di quanto e come ogni corridore li usa.

Mi spiego meglio: con l’avvento dei social è venuto meno quasi completamente il rapporto con il compagno di stanza, non ci si confida più, tutti siamo lì a guardare post e tweet sullo smartphone.
Ognuno di noi vive in una sorta di mondo parallelo e in una realtà come il ciclismo, dove la squadra ed i rapporti umani contano tanto, è un fattore molto negativo.
E’ stato un altro dei motivi che mi hanno spinto a smettere…

Qui sotto trovate un articolo scritto proprio da Matteo Montaguti, in cui ci racconta il modo nuovo in cui è tornato a vivere la bici una volta conclusa la carriera

Cara bici, ti ho riscoperto: 5 cose che da ex Pro’ sono tornato a sentire

Foto d’apertura facebook.com/letour – A.S.O. – Charly Lopez