Qualcosa non va nel ciclismo moderno?
E’ una domanda tornata prepotentemente di attualità dopo la pausa di riflessione presa da Tom Dumoulin. Anche perché la scelta del campione olandese non rappresenta un caso isolato.

Qualcosa non va nel ciclismo

Pensiamo al ritiro prematuro di Marcel Kittel o di Moreno Moser. Alle difficoltà prolungate di Fabio Aru, che oltre che fisiche erano probabilmente anche psicologiche.
A Thibaut Pinot e Romain Bardet, che la scorsa stagione si sono fermati anzitempo perché sentivano il bisogno di un periodo di stacco.

Parliamo di professionismo, è vero, e la capacità di gestire la pressione fa parte del gioco. Anzi, è sempre più un aspetto che fa la differenza tra l’essere un campione o un buon corridore. Se vogliamo, è un aspetto che non riguarda solo lo sport, ma anche il lavoro e la vita di tutti i giorni.



Nel ciclismo, però, situazioni di crisi come quella di Dumoulin si stanno verificando con una certa frequenza e quindi ci sembra giusto cercare di capire perché.
Cosa è cambiato rispetto al passato? E’ diventato più difficile fare la vita del corridore? Quali sono le pressioni aggiuntive a cui i ciclisti, specie i campioni, devono far fronte?

Ne abbiamo parlato con Luca Guercilena, General Manager della Trek-Segafredo di Vincenzo Nibali, che nella sua lunga esperienza in gruppo è stato a stretto contatto con tanti campioni.

Luca Guercilena, General Manager del team Trek-Segafredo

– Luca, cosa è cambiato nel ciclismo moderno rispetto al passato? Come mai è diventato così difficile gestire la pressione?
– In effetti ci si sta accorgendo che la componente psicologica è diventata fondamentale e tramite medici e psicologici prestiamo sempre più attenzione a quelle che possono essere le situazioni di stress degli atleti.
Nel ciclismo moderno sono aumentati i budget e gli ingaggi dei corridori di prima fascia, e questo inevitabilmente ha portato ad un aumento della pressione.

Purtroppo nel ciclismo le squadre non accedono alla ripartizione dei diritti televisivi e si sostengono solo grazie agli investimenti degli sponsor. Gli sponsor, come è logico che sia, vogliono ottenere la massima visibilità nel periodo in cui ti sponsorizzano, per cui sugli atleti ricade una pressione molto elevata.

Qualcosa non va nel ciclismo

– Paradossalmente, dunque, l’aumento dei budget (e dei guadagni di alcuni ciclisti) può avere un lato negativo?
Senza dubbio. Quando un atleta comincia ad avere dei volumi di entrate elevati, le aspettative diventano altissime e non tutti sono in grado di gestirle, specie nel ciclismo dove dalla prestazioni dell’atleta, spesso, dipende la “sopravvivenza” del team.
Mi spiego meglio. Nel calcio, dove gli stipendi sono in media molto più alti, il campione viene ingaggiato per vincere, ma la sua squadra andrà avanti nel tempo a prescindere dalle sue prestazioni.
Nel ciclismo, il campione sa che spesso il futuro del team dipende anche dai suoi risultati, poiché se non rende come ci si aspetta lo sponsor potrebbe decidere di non continuare.

Sebbene i ciclisti, per la fatica che fanno, si meriterebbero molto di più, è chiaro che le dinamiche mentali sono decisamente diverse: le responsabilità del capitano di un team di ciclismo sono molto maggiori rispetto al campione di una squadra di calcio.

Inoltre, nel ciclismo c’è una forbice di stipendi molto ampia: ci sono campioni che guadagnano tanto e corridori che hanno lo stipendio minimo.
In questa condizione è chiaro che tutta la pressione ricade sui corridori che guadagnano milioni. Situazioni di questo genere possono portare ad una condizione di stress esagerato, che male si sposa con uno sport di fatica come il ciclismo, che richiede di essere il più possibile sereno e motivato.

Qualcosa non va nel ciclismo
La stagione nel ciclismo moderno è lunghissima. Si inizia a Gennaio in Australia, per finire a novembre in Cina e Giappone

– Quanto incide il calendario su questa situazione? Ritiri sempre più lunghi e frequenti, corse che si susseguono tutto l’anno e in tutto il continente. I viaggi hanno un peso?
– E’ una componente che si somma alle altre fonti di stress.
Se sei un atleta di primo piano, inizi la stagione a gennaio in Australia, o lo fai poco dopo a Febbraio, e devi essere subito competitivo. Rispetto al passato, i campioni raramente possono permettersi il lusso di presentarsi alle corse, anche se non di primo piano, per “fare la gamba”. Le aspettative su di loro sono sempre alte e non esistono più gare da affrontare senza troppo stress.
Poi, se va bene, si finisce la stagione a ottobre dopo il Giro di Lombardia, oppure anche più tardi considerando le corse in Cina e Giappone.

A questo si aggiungono i ritiri, perché per essere pronto per le corse di gennaio devi andare in ritiro al caldo a inizio dicembre. E per preparare la seconda parte di stagione spesso si fanno ritiri in altura molto lunghi durante l’estate.
Senza dimenticare le attività di marketing, che oggi sono indispensabili:

Per il campione non ci sono più momenti in cui staccare e la stagione diventa praticamente infinita.
E’ una situazione impegnativa per tutti, ma chi ha famiglia e figli la può soffrire anche di più.

La Trek Segafredo in Spagna durante il primo ritiro stagionale. Le restrizioni legate al Covid-19 in questo periodo possono rappresentare un’ulteriore fonte di stress. Foto credit racing.trekbikes.com – Luc Claessen/Getty Images

– Rispetto al passato, dunque, non c’è più un momento di stacco in cui ricaricare le batterie, non solo dal punto di vista fisico, ma anche mentale.
– Esatto, questo è uno dei punti chiave.
Essere in grado di gestire tutte queste situazioni, per 12 mesi l’anno, richiede una grande capacità mentale.
In passato novembre era un mese di stop quasi totale, poi riprendevi a pedalare a dicembre ma in modo piuttosto rilassato.
Adesso, con l’importanza che hanno acquisito le gare oltre oceano, questo non è più possibile, anche perché la competitività è arrivata ai massimi livelli e la cura del dettaglio è esasperata.

Photo by Tim de Waele/Getty Images

– Hai parlato di cura dei dettagli esasperata. Incide di più dove tenere alta l’attenzione per un periodo prolungato o dover essere così maniacalmente attenti ai dettagli di allenamento e alimentazione?
– E’ sicuramente un insieme delle due cose.
Tu hai un’attenzione al dettaglio pressante per 12 mesi l’anno e per gli atleti troppo esigenti con se stessi può essere facile “saltare mentalmente”.

Oggi il corridore che fa la differenza è quello in grado di gestire il volume dei dati a disposizione.
Il grande campione, attraverso i suoi tecnici e il suo staff, riesce a farsi filtrare solo i dati che per lui sono davvero importanti, senza farsi travolgere da un volume di analisi che all’atleta serve fino ad un certo punto.
In questo modo si può riuscire ad allenarsi in modo proficuo, senza perdere del tutto il piacere di andare in bicicletta.

– E’ chiaro, dunque, che la componente psicologica fa ancora più differenza che in passato? Alla Trek-Segafredo in che modo fate fronte a questa situazione?
– Per la squadra femminile abbiamo una psicologa dello sport, Elisabetta Borgia, che lavora con il team in modo stabile. Nel caso del team maschile, quasi tutti i ragazzi hanno uno psicologo personale, perché la lingua è un limite abbastanza importante in queste cose.

In casi specifici, quando rileviamo che su alcuni atleti la componente mentale diventa fin troppo importante rispetto a quella fisiologica, siamo noi i primi a spingere perché questo segua un percorso di psicologia dello sport.

Foto credit racing.trekbikes.com – Luc Claessen/Getty Images

– C’è poi il discorso dei Social. Quanto incide dover avere anche un’immagine sui social, gestire le polemiche, i commenti…
– Incide molto. Viviamo in un mondo di socialità e il giudizio degli altri ti tocca e in determinate situazioni può farlo anche in modo pesante.
E’ una componente aggiuntiva di pressione che se gestita male può creare dei danni.
Però, rispetto al passato, il campione è colui che è in grado di fare la differenza anche nella gestione di questi aspetti.

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