Quanto tempo può racchiudere un’ora sola? Nel caso di Vittoria Bussi, quell’ora del 13 ottobre in cui ha percorso 50,267 km all’interno del velodromo di Aguascalientes, in Messico, stabilendo il nuovo Record dell’Ora femminile, racchiude il tempo di una vita intera. Quello di una lunga strada verso il record che, a distanza di qualche settimana, vi raccontiamo in questa intervista a Vittoria Bussi.

È il tempo troppo breve a volte, come quello che Vittoria ha potuto trascorrere con il padre, scomparso qualche anno fa, quando lei stava studiando per il dottorato in matematica pura che ha ottenuto ad Oxford. Un lutto che l’ha spinta a ripensare la sua carriera accademica e a cercare un senso più profondo a quello che stava facendo.

intervista a Vittoria Bussi

Il tempo massimo oltre il quale sembrava collocarsi la sua vita da atleta quando ha iniziato a gareggiare ed è stato chiaro che Vittoria non era tagliata per le corse in linea. Non aveva imparato abbastanza presto a pedalare gomito a gomito con le avversarie e a muoversi  in gruppo.

Il tempo “perso”, per cui due anni trascorsi a limare ogni centesimo di secondo tra calcoli e test in pista potrebbero sembrare troppo lunghi a 35 anni per lasciare in stand by tutto il resto ed inseguire un sogno tanto ambizioso.

Ma Vittoria non si lascia dettare il tempo dagli altri, e su questo ha le idee chiare.
“Non ho mai avuto la sensazione di perdere tempo. Perché per me non è mai stato importate cosa faccio. È importante come lo faccio. Dedicare tutta me stessa a quella che è la mia priorità in quel momento è l’unico modo di vivere che conosco”.

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Un bell’insegnamento per un’epoca che ci vuole smart e multitasking, capaci di occuparci di tutto e di più nel poco tempo che ci è concesso. Per questo quando le cose si fanno difficili, troppo difficili, la tentazione di mollare è forte.

Ma Vittoria è così: la sua forse è una visione romantica e anacronistica, ma è in questo modo che è arrivata lì dove ha voluto. Ed è questo a dare valore alla sua storia.
Una storia che molti non conoscevano prima di qualche giorno fa.

– È vero che ti hanno accusata di avere tenuto nascosto il tentativo?

– Sì, come ho cercato di spiegare si trattava di vincoli contrattuali con l’UCI e anche del fatto di non avere le risorse per coprire tutti gli aspetti.
Per la stampa estera in particolare era difficile capire da dove fossi saltata fuori. Dal Belgio, dove si sono visti sottrarre il record della Van Dijk, mi hanno stressata al punto che ho dovuto organizzare una call per spiegare a tutti la mia storia.
Si sono dovuti convincere che era tutto vero. Ora in compenso ho un bel gruppo di appassionati che mi segue anche da là.

– E invece le reazioni in Italia?

– Le persone che mi hanno seguita e supportata, anche economicamente attraverso il programma di raccolta fondi, sono state tantissime. Ho percepito grande entusiasmo ed affetto da parte di tutti quelli che si sono appassionati al mio progetto, e questo è stato davvero molto bello.

Sul fronte delle istituzioni lo stesso progetto non ha suscitato l’interesse che avrei sperato. Questo a volte ha comportato anche qualche difficoltà in più per tutta la macchina organizzativa. Dietro un tentativo di record ci sono anche tanta burocrazia e organizzazione, e su questo fronte l’appoggio degli enti avrebbe forse reso le cose un po’ più fluide.

Normalmente gli enti sono abituati ad investire su progetti con un inquadramento più consueto nel quale non rientrava senz’altro il mio caso.
Il fatto di muovermi in modo indipendente e di non essere parte di una squadra World Tour ha sicuramente inciso.

– Quando è iniziata quest’avventura?

– È cominciata due anni fa, quando ho deciso che volevo riprendermi il record, che avevo stabilito una prima volta nel 2018. Il 2021 era stato un anno di delusioni per me. Non ero stata convocata al mondiale e anche se mi stavo allenando tanto per la crono e per la pista non ci sono state le convocazioni che speravo.
Le porte sembravano chiuse per me, e con Luca Riceputi, che è stato il primo ad affiancarmi in questo percorso, abbiamo deciso di puntare al record con un progetto indipendente. Stavolta volevo fare le cose a modo mio.

– Ovvero?

– Volevo lavorare personalmente su tutti gli aspetti. Non volevo essere solo l’atleta che arriva e pedala senza occuparsi di nient’altro. Volevo che questo progetto fosse espressione di tutto quello che so fare.

– A partire dalle tue competenze matematiche…

– Esatto. Il primo passo da fare era trovare una bici per lavorare sul record e quando ho iniziato a cercarla non ho avuto un approccio convenzionale con le aziende.
Mi presentavo dicendo: “Vi dò l’opportunità di lavorare insieme a me a questo progetto per migliorare la vostra bici e portarla a battere il record”.
Perché era questo che volevo fare.

– E le reazioni quali sono state?

– Sempre nel 2021 sono stata a Londra a Rouleur Live. Lì mi sono proposta a Pinarello, che in quel momento era impegnato sul tentativo di Ganna. Anche per questo motivo non potevano darmi una risposta sicura nell’immediato.
In fiera c’era anche Sam Pendred, il designer della Hope HB.T, che era già stata utilizzata dalla nazionale britannica alle Olimpiadi. È una bici che mi è sempre piaciuta, e ho avuto la fortuna di poter spiegare direttamente a lui il mio progetto.

Ricordo che mentre gli parlavo aveva gli occhi lucidi di emozione. Ho percepito che un brivido gli stava correndo lungo la schiena e ho capito di avere trovato la bici, il primo tassello che mi serviva per costruire il progetto.

– Quindi sei partita dai materiali?

– Esatto. La bici si è portata dietro altri contatti e piano piano abbiamo costruito la parte “tecnica”, con attori fondamentali come ad esempio Simon Smart di Drag to Zero che già collaborava con Hope.

– E poi hai costruito il team di persone che ti hanno seguita…

– Sì, di mano in mano che si definiva la parte di materiali abbiamo costruito anche il gruppo di lavoro. Luca inizialmente doveva seguirmi solo per la parte tecnica.
Poi in realtà abbiamo capito che dovevamo fare insieme anche la preparazione. Da lui sono arrivati a poco a poco anche gli altri membri del gruppo per seguire tutti i vari aspetti, dalla nutrizione alla logistica e via dicendo.

– E quando hai messo tutto insieme?

– A quel punto mi sono resa conto che avevo veramente quello che per me era il “dream team”. Non potevo sognare di meglio, perché chi ha aderito a quel progetto credeva davvero in ciò che stavamo facendo. Non poteva essere diversamente dato che mi presentavo a tutti mettendo subito in chiaro che non avevo soldi e che i soldi non erano la mia priorità.

– Però i soldi servivano…

– Esatto. Sono arrivata ad avere tutto tranne quelli. Il 2022 è stato un anno pessimo a livello di prestazioni.  Era normale dato che stavamo mettendo le basi con una serie di cambiamenti che richiedevano tempo per l’adattamento.
Avevo cambiato tutto, dalla posizione in sella all’alimentazione, dal programma di allenamento alla palestra. In quel momento avevo ancora un unico sponsor, Febametal, che era con me dal 2019.

A novembre siamo stati in Messico ad Aguascalientes per capire a che punto eravamo e in allenamento ho battuto il record della Van Dijk per la prima volta.
È stato lì che ho capito che i 50 km erano alla mia portata.

Tornata a casa ho deciso di prendere il coraggio a due mani ed è nato il progetto di raccolta fondi Road to Record. Non è facile dire a tutti che hai bisogno di soldi. Le belle storie piacciono a tutti, ma è diverso mettersi a nudo e chiedere un aiuto concreto.

– E ha funzionato?

– Ha funzionato molto bene, si sono mosse tante persone individualmente e abbiamo intercettato anche alcuni altri sponsor fondamentali. Siamo arrivati al budget che ci permetteva, facendo attenzione, di coprire tutte le spese di base.
A quel punto però è iniziata la ricerca del velodromo, che si è rivelata particolarmente complicata.

– Il tuo primo record lo avevi già fatto ad Aguascalientes?

– Sì, quella sarebbe stata la mia prima scelta, ma in quel momento per problemi della Federazione messicana gli impianti non potevano ospitare eventi UCI.
Ho girato diverse strutture, sono stata in Norvegia, in Svizzera, a Maiorca. Gli allenamenti andavano bene, sapevo di avere il record nelle gambe, ma trovare il posto giusto era difficile.

Per stabilire un record che si gioca su mille variabili servono condizioni meteo stabili. In Norvegia ad esempio il velodromo è vicino al mare e pressione e umidità influenzano molto la prestazione. Un tentativo di record dell’ora deve essere comunicato per regolamento all’UCI con 4 mesi di anticipo, quindi questo fattore diventava fondamentale.

– Dev’essere stato scoraggiante sapendo di essere pronta affrontare questo tipo di problemi pratici…

– Sì, poi a giugno sembrava che finalmente con l’aiuto della Federazione avrei potuto correre in Argentina. Il 6 sarei dovuta partire, e solo quattro giorni prima mi è stato comunicato che era saltato tutto e che anche questa opportunità era svanita.
Quello è stato forse il momento più duro. Per tre giorni ho pensato che non ce l’avrei fatta. Iniziavo a non divertirmi più. L’opzione della Svizzera era l’unica, ma il record lì non avrebbe avuto lo stesso valore, dato che gli impianti di areazione creano delle condizioni favorevoli che falsano un po’ la prestazione.

Per fortuna negli stessi giorni l’UCI ci ha comunicato che il Messico era di nuovo disponibile. Quello mi è veramente sembrato un segnale. Ho deciso per Aguascalientes, anche perché iniziavo a stancarmi, non mi stavo più divertendo.
L’inizio dell’estate è stato il periodo più difficile, anche dal punto di vista della forma fisica. Ho partecipato all’italiano perché avevamo bisogno di dati in gara ma ci sono arrivata senza preparazione, senza bici e in condizioni non adeguate.

La svolta è arrivata con le tre settimane di altura sul Gran San Bernardo. Sono stata ospite del velodromo di Aigle dove mi hanno aiutato davvero tanto a consolidare la condizione. Il mio record è nato lì, ne sono certa, dove ho trovato la pace mentale che mi serviva. Tanto che ho detto a Rocco, il mio compagno, che voglio sposarmi lì.

– Eppure fino all’ultimo c’è stata la suspence legata alle condizioni meteo…

– Il velodromo di Aguascalientes è in mezzo al deserto e questo normalmente garantisce condizioni di grande stabilità. La settimana scelta per il tentativo però un tornado ha fatto scendere la temperatura di oltre 10 gradi. Abbiamo chiesto due giorni di rinvio per aspettare che la temperatura risalisse, ma abbiamo sofferto davvero fino all’ultimo. Per fortuna poi è andata bene.

 

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– E adesso? Cosa succederà? La bici sarà ancora parte della tua vita?

– In un modo o nell’altro sicuramente. Lo sport è una parte fondamentale della mia vita, che si tratti di costruire un record dell’ora o semplicemente di vivere bene il mio tempo.
Per ora continuerò ad allenarmi e nei prossimi mesi vedremo che succede. Ma dal punto di vista atletico sono appagata. Non sarei nemmeno in grado di mettermi addosso la pressione che ho sopportato in questi due anni.
Vedremo anche cosa succede con la nazionale, se ci saranno delle gare a cui puntare.

– Intanto c’è anche un matrimonio da organizzare…

– Sì, il mio compagno, Rocco, ha faticato più di me in questi due anni. Sono stati due anni di discussioni e difficoltà quotidiane. Quelle che ho raccontato si sommano a tutte le mille piccole problematiche a cui deve far fronte chi decide come me di fare qualcosa di così impegnativo in autonomia. Non è stata una passeggiata.

Ora sicuramente ci sarà spazio per noi, per una famiglia, magari per tornare al mio lavoro di matematica. Vedremo. Per adesso non mi sono ancora fermata dopo il Record.
Guarda, mi tengo lì il cartellone così ogni tanto lo vedo e inizio a rendermene conto davvero. So che il record verrà battuto, è sicuro. Ma sarò sempre io ad avere abbattuto il muro dei 50 km fra le donne. E questa, credo, sarà una cosa che resterà.

Qui sotto trovate il nostro approfondimento tecnico sulla bici usata da Vittoria per il Record dell’Ora.

Nei dettagli della bici di Vittoria Bussi usata per il Record dell’Ora