Ancora una volta mi sono ritrovata ad essere l’unica donna durante un’uscita in bici. A fine giro mi rendo conto di accogliere i complimenti del gruppo senza grande entusiasmo. Un po’ come per il bike to work, preferirei non essere l’eccezione che conferma la regola.
Al contrario, sogno una realtà diversa, dove i praticanti siano tanto uomini che donne. Ma perché le donne in bici sono ancora così poche?

Diciamolo subito: i dati sulle presenze femminili nel ciclismo sportivo sono quasi imbarazzanti. Analizzando un po’ di numeri sui tesseramenti tra federazioni ed enti di promozione sportiva e sulle iscrizioni alle granfondo il divario con gli uomini appare enorme. Per quanto questi numeri fotografino solo una piccola porzione del mondo dei praticanti, si tratta comunque di un indicatore importante.

donne in bici
Foto Maratona Dles Dolomites

Diversi studi sul gap di genere sono stati fatti qualche anno fa soprattutto in ambito anglosassone per quanto riguarda l’utilizzo della bici come mezzo di spostamento quotidiano. Tutti giungono alle stesse conclusioni.
Quello che scoraggia le donne dall’utilizzo quotidiano della bici non sono aspetti come il “dress code” o il giudizio sociale (sebbene anche questi fattori siano stati indagati ed incidano in parte).
Le criticità riguardano questioni sostanziali come la diversa percezione del rischio e gli spostamenti più frammentati e complessi.

Le donne in bici sembrano essere maggiormente consapevoli della pericolosità delle strade e della mancanza di infrastrutture adeguate rispetto agli uomini. Detto in modo semplice, temono maggiormente di essere investite o di incappare in incidenti a causa delle condizioni dell’ambiente circostante.

Problema che potrebbe essere legato all’altro fattore determinante: le donne compiono spostamenti che implicano più spesso soste e trasporto, dei bambini o della spesa o di tutto quanto riguarda la quotidiana gestione della casa.
Va da sé che si preoccupino maggiormente della mancanza di sicurezza in strada, e che siano allo stesso tempo scoraggiate dalla complessità dei loro spostamenti.

Di sicuro questa scarsa abitudine all’uso della bici nel quotidiano incide anche sul minor numero di donne che praticano la bici come sport e svago. Se non sono abituata ad andare in bici è meno probabile che mi cimenti in un’attività anche più impegnativa dal punto di vista fisico su un mezzo che non mi è familiare.

Foto UCI

I due problemi sono quindi sicuramente collegati. Nello specifico dello sport ci sono però anche altri fattori che possono influenzare la presenza femminile nel ciclismo. Ho provato allora ad interrogarmi in merito e ad ipotizzare delle risposte.

Mi sembra un po’ semplicistico attribuire il problema a una differenza culturale per cui le donne – soprattutto in Italia – fanno meno sport, sono meno abituate al disagio, ai problemi pratici, ecc. come mi è capitato di leggere.
In molti altri sport non c’è la differenza che vedo nel ciclismo. Ho corso a piedi per anni e nel podismo il divario è molto meno marcato, così come in altri sport duri, faticosi e disagevoli.

donne in bici

Di certo, invece, esistono problemi di natura pratica che riguardano maggiormente le donne degli uomini. Uno su tutti è la disponibilità di tempo.
Nell’organizzazione familiare spesso le donne sono quelle che fanno più fatica a ritagliarsi del tempo, e per andare in bici, si sa, non bastano i 40 minuti della sessione in palestra.

Di fronte poi al mezzo meccanico le donne si percepiscono come meno capaci di far fronte ad un problema pratico. Attenzione, perché si tratta di un problema di percezione e non di competenza reale (confidence, not competence) dato che per la stragrande maggioranza degli uomini che vanno in bici le abilità tecniche si limitano (se va bene) alla riparazione di una foratura.

Foto Liv Cycling Italy

Il problema della percezione di se stesse come non abbastanza forti, non abbastanza allenate, non abbastanza abili tecnicamente va sotto il più vasto cappello della mancanza di fiducia in se stesse.
Questione che però non riguarda il ciclismo nello specifico, ma qualunque nuova attività ci si trovi ad affrontare, e la cui incidenza mi sento quindi di ridimensionare se vogliamo prendere in considerazione il problema di cui ci stiamo occupando.

Non si può ancora attribuire la scarsa presenza di donne in bici ad una minore attitudine alla fatica, alla sofferenza, ecc. La storia è piena di donne che dimostrano esattamente il contrario. Come ne è piena la storia del ciclismo stesso.
Basta leggere la storia di Alfonsina Strada o dare un’occhiata al documentario realizzato da Canyon sul Tour de France Femmes aver Swift 2022 per rendersene conto.

E qui sta una chiave fondamentale, a mio avviso, della minore presenza femminile nelle bici. Tutto quello che abbiamo detto è vero. La mancanza di tempo, la percezione di se stesse come meno preparate e meno competenti del necessario. Il rischio sulla strada. Tutti motivi validi.

Ma non esiste uno sport che non abbia dei “contro” accanto a tanti “pro”. Vogliamo parlare dei disagi e delle problematiche inerenti a discipline tradizionalmente femminili come la danza classica o alcune specialità della ginnastica artistica?

Io credo che a fare davvero la differenza siano la mancanza di esempi e di visibilità. Siamo abituati a vedere ballerine e ginnaste e nuotatrici e pallavoliste. E non ci sembra strano. In quel caso non ci raccontiamo che le donne fanno meno sport in generale o cose del genere.

donne in bici
Demi Vollering, vincitrice dell’ultimo Tour de France Femmes avec Zwift – Foto Sram Road

Il problema è che non vediamo abbastanza le donne in bici, con qualche rara eccezione… Mi riferisco in particolare al professionismo, che dovrebbe rappresentare il contesto dove si definiscono nuovi modelli. Non vediamo (in chiaro) le grandi classiche, non vediamo la Vuelta Femenina, non vediamo nemmeno il Tour de France Femmes avec Zwift. Una gara sospesa per trent’anni e che ha fatto tanto parlare di sé, ma non così tanto in Italia.

Senza la giusta copertura e visibilità queste corse, faticosamente conquistate al calendario World Tour femminile, rischiano ancora di scomparire. Sorte già toccata al Women’s Tour britannico nella quasi totale indifferenza del “grande” ciclismo.

Anche per il Giro Donne la diretta Rai si riduce sostanzialmente ai 45 minuti obbligatori imposti dall’UCI per tutte le gare World Tour. Restano i servizi in abbonamento, come Eurosport, a cui va un grande plauso per l’impegno, ma che vengono tuttavia scelti da chi già segue il ciclismo e non impattano radicalmente sulla percezione comune.

L’emulazione conta. Negli sport quello che fa la differenza è poter vedere i campioni fare il loro gioco. È sempre stato così e ora che il visuale domina qualunque altro mezzo di comunicazione questo è forse ancora più vero.
Il processo non è immediato, perché qui si parla di costruire una cultura sportiva che manca. Ma quando inizierà questo processo?

C’è davvero un interesse a farlo per il bene del ciclismo tutto, sofferente tanto nelle categorie giovanili quanto in quelle amatoriali? O le migliorie che vediamo – il World Tour femminile è passato da 34 corse nel 2016 a ben 80 nell’anno corrente – sono solo il frutto di strategie di marketing di alcune isolate aziende che non avranno un vero seguito?

donne in bici
Foto Marco Alpozzi / LaPresse

Per ogni sport esistono difficoltà da superare per poterli praticare, ma non cadiamo nella banalità di pensare che le donne siano meno in grado degli uomini di gestirle ed affrontarle. Forse fa più comodo pensare che questi siano i motivi delle poche presenze femminili nel mondo della bici sportiva.

Ma faccio una domanda a tutto quel mondo che vive di bici.
È davvero una mossa intelligente, nonostante tanti sforzi ed investimenti, fare ancora della bici su strada un club al maschile in cui le donne sono ammesse per gentile concessione?

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