Se glielo chiedete, ogni ciclista saprà raccontarvi la sua prima volta in bici.

Ho desiderato una bici da corsa da quando a vent’anni sono riuscita a confessare a mio padre che le gare di podismo, a cui mi accompagnava da quando ero bambina, non mi appassionavano abbastanza.
Ricevetti persino in regalo un casco e un paio di pantaloni col fondello all’epoca, tanto l’acquisto di una bici sembrava allora imminente.
Poi gli studi, gli spostamenti continui e il poco tempo, uniti al fatto di non conoscere assolutamente nessuno che potesse aiutarmi ad iniziare, hanno fatto sì che quell’acquisto venisse rimandato a lungo.

L’autrice dell’articolo, Silvia Marcozzi, con la sua attuale bici




Quando ho portato a casa la mia prima bici da corsa – un “cancello” rosso fiammante con il cambio difettoso di una marca che non ho mai più sentito nominare – ricordo che i miei nipotini, che all’epoca avevano una manciata di anni, rimasero imbambolati e un po’ spaventati a guardare un’adulta che per un pomeriggio intero continuò a cadere dalla bici provando ad agganciare e sganciare le tacchette nel giardino di casa: non riuscivano a capacitarsi di essere improvvisamente diventati umani più stabili e sicuri di me.

La cosa delle tacchette fu un problema.

Oggi che trovo difficile pedalare con i piedi sganciati lo ammetto tranquillamente, ma ai tempi me ne vergognavo moltissimo, e soprattutto temevo rovinose (e pericolose) cadute in strada, al punto da studiare per le mie prime uscite degli anelli da percorrere in senso orario in modo da evitare svolte a sinistra e quindi da limitare il più possibile la necessità di sganciare i piedi.

La prima volta che mi misi in strada senza usare questo stratagemma fu in occasione di un’uscita con un amico che usava la classica bici da corsa degli Anni 70 ereditata dal nonno e riadattata con manubrio da passeggio e un improbabile colore fluo – pratica che dopo il boom dell’Eroica è diventata nel mondo del ciclismo l’equivalente di una bestemmia – e fatalmente, appena in fondo alla via di casa mia, caddi nello svoltare a sinistra per non essere riuscita a sganciare la tacchetta in tempo.
Non mi feci nulla, ma mi sentii tanto in imbarazzo e ne riportai una tale insicurezza che da quel momento divenne molto facile trovare delle scuse per sostituire un’uscita in bici con un allenamento a piedi – dal momento che praticavo già nuoto e corsa, l’idea che mi ero fatta ai tempi era quella di passare al triathlon.

Per un po’ la bici restò in garage.
I miei genitori iniziarono a rimproverarmi il fatto di avere speso dei soldi per comprare un mezzo che non stavo usando e a dirmi che avrei dovuto venderla, facendomi sentire ancora più in difficoltà, al punto che iniziai a pensarlo anche io – anche se sapevo benissimo che l’unica cosa che importava loro in realtà era che liberassi prezioso spazio in garage.

Un giorno al lavoro parlando di vacanze estive con un collega venni a sapere che stava organizzando un viaggio in mountain bike lungo il cammino di Santiago con alcuni amici.
L’idea di partecipare mi attirava moltissimo: il viaggio rappresentava la priorità, la bici in quel caso solo un mezzo per realizzarlo – non avrei mai avuto il tempo sufficiente per percorrere a piedi il cammino – e un motivo di interesse in più.
La necessità di mettere un po’ di chilometri nelle gambe mi spinse a riprendere la bici e mi sforzai di superare la tensione che la storia delle tacchette mi aveva creato.
Con qualche uscita nelle gambe e tanti anni di corsa a piedi in dote, decisi di aggregarmi.
In Spagna pedalammo per otto giorni dal mattino presto a sera, portando con noi tutto il nostro bagaglio e fermandoci a dormire negli ostelli disseminati lungo il cammino, dove ci toccava aspettare ogni volta che si fossero sistemati tutti i pellegrini a piedi prima di sapere se restava posto anche per noi, paria del cammino per il solo fatto di percorrerlo con un mezzo a due ruote.
Lungo i sentieri caddi almeno una dozzina di volte, non so nemmeno più perché: i tracciati in molti punti non erano adatti ad essere percorsi in bici, ci misi un po’ ad abituarmi al peso a al bilanciamento delle borse, gli attacchi dei pedali erano (ancora una volta) qualcosa di nuovo rispetto a quelli a cui mi ero almeno un po’ abituata prima di partire.

Ma non importava: andavo avanti, e quello era lo scopo.

prima volta in bici da strada
Una delle poche foto del viaggio a Santiago de Compostela

prima volta in bici da strada

Arrivammo a Santiago e poi a toccare la costa a Finisterre, attraversando una gran varietà di climi e paesaggi diversi.
Fu un viaggio assolutamente straordinario, eppure, ancora dopo tanti chilometri percorsi, non mi sentivo una ciclista.
La bici mi è sempre piaciuta, ma alla fine di quel viaggio continuava ad essere solo un mezzo per me straordinariamente versatile e divertente, ma solo un mezzo per fare altro.
Quando al ritorno ci salutammo, uno dei ragazzi, che aveva notato la mia predisposizione alla fatica e la tenacia, mi invitò a partecipare ad un’uscita di gruppo la domenica successiva.
Mi presentai, abbastanza sicura di me dopo quel viaggio da sapere che quantomeno sarei stata in grado di affrontare qualche ora in sella.

Quel giorno la bici da corsa, dopo una settimana su una mountain bike a noleggio carica di bagagli, sembrava volare.
La sensibilità e l’abitudine acquisite mi regalavano quella sensazione di confidenza che su una bicicletta, estensione artificiale della nostra meccanica corporea, non può che essere conquistata con la pratica.
Per dirla in modo semplice, mi sentivo nel mio elemento: non solo pedalare era naturale, questo era già vero, ma era come se la bici fosse esattamente il mezzo che il mio corpo chiedeva per esprimere se stesso.

Il gruppo, che pedalava a ritmo sostenuto, mi dettava delle istruzioni che potevo eseguire solo spingendo al limite le mie capacità, proprio come un pilota si affida al suo navigatore.
Accodata alla ruota che mi precedeva, incalzata da quella che mi seguiva, dosavo la forza sui pedali, sceglievo il rapporto, adeguavo la velocità, deceleravo e rilanciavo, disegnavo le traiettorie inclinandomi e danzavo la mia danza scoprendo con gioia di sapere esattamente cosa fare.
Il cuore batteva, di sforzo e di emozione, e d’un tratto, io e la bici, eravamo a tal punto in sintonia che non serviva più pensare: tutto era diventato sensazione.

prima volta in bici da strada

Quel giorno feci un centinaio di chilometri, a ripensarci oggi sicuramente ad un ritmo non particolarmente sostenuto, con una bici che di fluido aveva solo il nome, tanto che oggi mi sfugge, ma quando arrivai a casa ero elettrizzata e avevo la certezza che fosse successo qualcosa: qualcosa di inspiegabile, ma che ogni ciclista conosce.
Chi era con me lo aveva sentito, perché conosceva l’emozione che stavo provando, e la condivideva.
Nel mio ricordo si congedò da me dicendomi come il maestro al super-eroe che ha appena imparato a controllare i suoi poteri e si prepara allo scontro con il gran villain: “Sei pronta” – ma potrei tranquillamente avere travisato in senso epico le sue parole che probabilmente furono qualcosa tipo “Alla prossima”.

Comunque sia andata, fu quella la mia prima volta, quando ri-nacqui come ciclista, affacciandomi così a quella vita parallela alla vita che le due ruote regalano a tutti coloro che, come noi, sono nati due volte.

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