Vincenzo Nibali ha annunciato il ritiro ieri nella sua Messina, al termine della 5° tappa del Giro d’Italia. Le lacrime e la commozione in diretta al Processo alla Tappa di uno dei più grandi ciclisti italiani dell’era moderna.
È “l’aria del tuo paese” che trasforma tutto. Una carta da regalo che avvolge quanto Vincenzo ci ha donato in 17 anni di carriera: 54 vittorie, due Giri d’Italia (2016 e 2013), un Tour del France (2014) e una Vuelta (2010). Più i podi. Più una Milano-Sanreno (2018) e due Giri di Lombardia (2017 e 2015). Più i piazzamenti nei dieci.
Aria del tuo paese è il titolo di un pezzo scritto da Enrico Emanuelli e pubblicato sulla Gazzetta dello Sport nel lontano 1937 proprio durante il Giro d’Italia.
Ci è venuto in mente questo articolo d’altri tempi quando ieri abbiamo rivisto Nibali nella sua Messina. Un ciclo che si chiude. Una corsa che prosegue: nuovi traguardi ed obiettivi. Desideri sopratutto.
G.B.

Aria del tuo paese
Tutte le strade d’Italia, per te che sei costretto a percorrerle con le mutandine nere e con una maglia di vario colore, su una leggera bicicletta, sempre nel minor tempo possibile, come se il tuo destino fosse quello di fuggire inseguito da un’ombra che ti fa paura, si rassomigliano.
Possono essere strade asfaltate o rosicchiate dalla polvere, larghe e diritte, oppure tortuose ed in salita, strade di grande traffico o stradette fuori mano, secondarie; tutto ciò, ai tuoi occhi, non ha molta importanza.
La strada è una cosa semplice, senza misteri, la vedi davanti a te, la puoi percorrere dieci, cento volte e scoprirvi sempre nuove visioni a destra ed a sinistra, ma la strada-strada resta quello che è: il tuo banco di lavoro.




Quando una salita ti obbliga ad inarcare la schiena e buttare il volto sul manubrio, e ti fa dondolare come un batacchio di campana, di qua e di là, nella cadenza della pedalata che ti taglia il respiro; quando una discesa ti mette le ali ai piedi come una divinità pagana, e ti costringe a serrare ben forte le mani sulle due leve dei freni, lasciando dietro di te, nelle curve, una scia di ferodo bruciacchiato sul legno dei cerchioni, in un gioco azzardato e pericoloso di equilibrio affidato al precario contatto delle due gomme che hai gonfiato dure come il sasso; quando in pianura devi per forza arrancare per tener dietro alla ruota del compagno che ti precede perché sai che se ti distacchi naufraghi nel gruppo dei ritardatari, senza possibilità di rifarti con l’inseguimento; quando tutto questo accade tu non vedi che cosa sta alla destra ed alla sinistra della strada.




I paesi sono solamente case messe in fila, la campagna non è che un gran cartone verde, la folla non è che una macchia scura, punteggiata da gridi d’entusiasmo. In corsa vedi ben poco, non vedi nemmeno la strada, forse, tanto sei preso dalla tua fatica, una fatica che non sai ancora se riuscirà a toccare la vittoria, o se resterà per sempre sconosciuta.


Vedi qualcosa che passa sotto le ruote, qualcosa di nero o di bianco, liscio o tutto a buche, asfaltato o insidioso, ed un istinto oramai ti guida per cercare velocemente il punto migliore in cui passare, un istinto ti sorregge negli scarti improvvisi, e per te la strada diventa come l’aria, di cui si vive, che nemmeno si vede.


Quando sei in gruppo e te ne vai con gli altri, o quando sei in un tentativo di fuga e scappi solo, come sospinto da una gigantesca mano, invisibile, che tu soltanto senti premere sulla tua schiena, o quando in un inseguimento pedali disperatamente, perché sai che ogni attimo di esitazione vuol dire un metro perduto, non vedi la strada. Veramente per te tutte le strade si rassomigliano.
Se fai una distinzione, dici: «Su quella strada ho fatto una corsa» e basta. Le strade buone sono quelle sulle quali sei riuscito ad essere vittorioso, le brutte quelle che ti hanno veduto sconfitto.

Conosci l’Italia, perché la guardi sulle tabelle di marcia, su quelle dei dislivelli, sulle cartine delle altimetrie che cerchi di metterti bene nella mente prima di partire per la tappa. Non ti importa sapere che nome abbia questa montagna, ma basta che tu sappia la sua quota; non ti importa sapere se quella discesa vada verso il mare o verso una città, ti basta sapere se è vicina o lontana dal traguardo.
Se ti riportassero, dopo poche ore, in quello stesso punto dove ti sei fermato per cambiare una gomma, strappandola nervosamente dal cerchio di legno, non riconosceresti il luogo. Ti sei chinato sul forcellino posteriore od anteriore, hai bloccato la ruota, hai riparato, hai gonfiato, ti sei rimesso in macchina senza dare un’occhiata attorno.
Anche tutti i bordi di strada, in cui tu cambi una gomma, si rassomigliano: grigi e tetri, fatti apposta per la sfortuna e per la disdetta.

Però un bel giorno tutto ciò cambia.
Cioè non cambia nulla, ma sei tu che muti animo ed allora ti pare che tutto abbia un nuovo aspetto. Succede una volta sola, quando l’itinerario della corsa attraversa la tua terra, tocca il tuo paese, il paese in cui sei nato o là dove vivi. Avverti nell’aria qualcosa di nuovo, il tuo orgoglio è punto più da vicino, il tuo amor proprio reagisce in maniera più vivace, e quel giorno ti senti capace di cose mai prima d’allora fatte, cose che nemmeno sapevi di poter fare.


Allora sì che riconosci la strada, punto per punto, ed i nomi dei luoghi, e tutte le svolte, e tutte le pieghe delle salite, tutti i piccoli misteri delle discese. Lasci indietro i tuoi compagni e vai su da solo, vai via come non ti è mai capitato di fare, con una nuova sicurezza, con una agilità sconosciuta.
Eravamo magari abituati a vederti nel fondo del gruppo, o pedalare sempre in posizioni di mezzo, anche non ti si era mai visto animato dalla voglia di combattere, come tu non riuscissi a trovarne le possibilità; e poi, di colpo, salta fuori la tua giornata, quella in cui vivacemente ti metti in testa, e tiri, e tenti di lasciarti tutti alle spalle.

Le voci che senti ti ricordano tante cose; è il tuo dialetto, è la tua cadenza che echeggia nell’aria. Gli amici sono sulla strada e tu devi ben figurare, loro ti hanno portato le bottiglie dell’acqua, loro hanno scritto il tuo nome (prima non lo avevi mai incontrato) sull’asfalto della strada, sui muri delle case, hanno fatto cartelli con un segno d’evviva.

Tu devi arrivare primo, devi sfruttare tutta la cordialità di questa tua strada, che ti ricorda gli allenamenti, le passeggiate, la tua vita. La strada è pur sempre una strada, e la bicicletta resta pur sempre quella, ed i muscoli, il fiato non sono ingigantiti all’improvviso, e la classe non ha guadagnato di colpo numerosi punti.
Eppure, eppure qualcosa dentro di te è mutato, ti senti diverso dai giorni precedenti, senti l’aria del tuo paese.
[…]

Poi, questa unica giornata, passa. Ci si rimette sul piede più tranquillo, si fanno tacere le velleità, non si tenta più il colpo dell’audacia. Le strade ridiventano strade da percorrere nel minor tempo possibile, senza riconoscere che strade siano. Ci si accontenta di stare in gruppo, di non accusare troppo la distanza, di reagire agli attacchi quel tanto che è sufficiente per non perder molto terreno.

Perché son certo che, se nel Giro tutti dovessero passare nelle loro strade, tutti, quel giorno, metterebbero fuori l’unghia del leone. Qualcuno la sa trovare anche senza essere nella sua regione, tra i suoi compagni, nella sua terra, sulle sue strade; ma molti altri soltanto qui riescono a trovarla. E quelli che son nati o vivono fuori strada, cioè in posti non toccati dal Giro? Dove e come si rifaranno?
Enrico Emanuelli, La Gazzetta dello Sport, 1937
Tratto da “Eroi, pirati e altre storie su due ruote. Un secolo di ciclismo”, AA. VV., a cura di Simone Barillari, Bur Rizzoli, 2013


Foto in apertura: Gian Mattia D’Alberto/LaPresse