E’ di poco tempo fa il video postato dall’ultracyclist Omar Di Felice, che mostrava le immagini registrate dalla videocamera del Garmin Varia in cui una una moto rischiava di coinvolgerlo nella sua caduta. Ne avevamo parlato nell’articolo qui sotto:
“Eh ma voi ciclisti…”. Guardate cosa ha rischiato Omar Di Felice
La scena ha fatto rabbrividire tutti noi ciclisti, consapevoli in ogni istante della fragilità della nostra presenza sulla strada.
Siamo affiancati, e troppo spesso sfiorati, da mezzi che per noi sono sempre mezzi “pesanti”, perché anche una moto, lanciata a quella velocità, avrebbe lo stesso effetto di un tir nell’impatto con i nostri corpi esposti e inermi.
Ancora più recente è l’incidente occorso ad Alejandro Valverde e ad alcuni compagni durante un allenamento nella zona di Murcia, dove un automobilista ha travolto il campione spagnolo prima di darsi alla fuga (fortunatamente non ci sono state conseguenze serie per gli atleti e il conducente della vettura si è costituito il giorno seguente).
“In bici mi sento nuda, mi rendo conto di avere paura”.
Me lo diceva un’amica poco tempo fa, raccontandomi di avere acquistato una bici elettrica per riprendere l’abitudine di spostarsi in città su due ruote, persa durante la gravidanza e con la nascita del primo figlio. Felicissima di avere scoperto la possibilità di tornare a spostarsi in modo agile ed ecologico, pur con tutto l’equipaggiamento che implica il trasporto di un infante (infante compreso, si capisce), manifestava il disagio di trovarsi in strada alla mercé del traffico urbano, per giunta insieme al figlioletto.
Questa sensazione di “esposizione”, di fragilità, è reale e ben conosciuta in particolar modo agli stradisti. Solo di recente si inizia a comprendere l’importanza di un cambio culturale che consenta a tutti gli utilizzatori della strada di rispettare le bici e riconoscere il loro diritto ad essere considerate come tutti gli altri mezzi sulla sede stradale.
Si muove in questa direzione la campagna di Paola Gianotti con il suo Giro per la sicurezza per installare segnaletica ad hoc a cui hanno aderito centinaia di comuni in tutta Italia. Eppure, la mentalità prevalente sembra collocarsi completamente all’opposto dell’atteggiamento di rispetto e considerazione che potrebbe risparmiare tanti incidenti.
Un amico mi manda di tanto in tanto meme e video ricevuti attraverso chat di appassionati motociclisti che prendono di mira i ciclisti. Il tono è quasi sempre scherzoso, ma i contenuti sono allarmanti, come nella clip montata ad hoc con spezzoni di pubblicità e filmati vari in cui i malcapitati ciclisti appaiono travolti, schiacciati, buttati fuori strada e via di seguito, mettendo in scena le fantasie di tutti coloro che li trovano una presenza fastidiosa sulla strada.
Solo un gioco, si dirà, ma che contribuisce ad alimentare un immaginario collettivo molto pericoloso. Con la scusa della goliardia si possono fare grandi danni fomentando sentimenti di rabbia secondo un meccanismo assai sfruttato dai social per aumentare il traffico ed i numeri delle visualizzazioni.
Ma noi che sulla strada ci siamo tutti i giorni sappiamo che non è solo questione di numeri disincarnati, ma di persone che ogni giorno rischiano l’integrità fisica per la negligenza, la noncuranza o la rabbia che in troppi riversano sulle strade.
Che fare?
Arrendersi e passare allo sterrato, come del resto molti stanno facendo?
Certo, questa può essere una soluzione, ma non è quello che vogliamo.
Nessuno come noi che pedaliamo conosce l’asfalto così da vicino, nelle sue crepe e sulle sue superfici. Traditore nelle curve bagnate o gelate d’inverno e bellissimo quando scorre via liscio e asciutto lungo i tornanti di montagna.
La strada, con i suoi tombini, le buche, le banchine scassate e le toppe catramose che si incollano agli pneumatici, è forse più nostra che di tanti altri che la usano senza viverla, senza respirarne l’odore acre, senza lasciarci a volte la pelle e più spesso il sudore.
La amiamo e la odiamo, ne conosciamo la consistenza ruvida che lacera la pelle d’uovo con cui ci “proteggiamo”, per cui qualcuno ci prende in giro, perché siamo quelli che si vestono aderenti, e non siamo sempre belli da vedere.
Ma in un mondo che si rifugia dietro gli schermi, che vive ogni cosa a distanza, che sfugge il contatto diretto con le cose e le persone, forse è proprio questo che fa ancora del ciclismo su strada uno sport epico.
La fragilità che caratterizza gli atleti nell’agone provoca in noi un brivido quando li vediamo scendere a velocità folli o lanciarsi in volata al traguardo a pochi millimetri gli uni dagli altri. Il loro esporsi, che si oppone alla distanza disincarnata e filtrata attraverso cui percepiamo il mondo quotidianamente, che allontana da noi ogni male – come le guerre – e ogni bene, li rende un po’ eroici ai nostri occhi.
E anche noi, nel nostro piccolo, in un mondo che predica il contrario, ci esponiamo, in un esercizio di fragilità che ci ricorda quanto precari e deboli siamo nella realtà concreta del mondo, quanto basti un niente a ferirci e a sottrarci a tutto questo.
Continuiamo a praticarla, allora, quest’arte di opporsi come fiori davanti ai cannoni a chi lo ha dimenticato, e che forse dovrebbe scendere dall’auto e salire su una bici per tornare ad essere più umano.
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