Prima di Marco Pantani, quando da ragazzino in bicicletta la mia strada incrociava quella di un signore o di una signora di mezza età, vedendomi arrivare ansimando, scattava automatico l’incitamento:
«Vai Coppi!»
Oppure:
«Forza Bartali!»
E parliamo degli Anni Novanta, cioè quasi ieri.
Poi venne Marco Pantani e cambiò le abitudini e la percezione del ciclismo agli occhi delle persone.
Ma Coppi e Bartali, in realtà, non sono mai spariti, semplicemente perché non possono sparire.
Vivono ancora nel nostro ciclismo, in maniera inconsapevole, perché negli Anni Quaranta e Cinquanta hanno insegnato a tutti, italiani e stranieri, ciclisti e non ciclisti, che cosa fosse il ciclismo e a quale trionfi e gloria portasse.
La fatica come gioco, come scommessa, come una risorsa infinita.
Insomma, qualcosa di cui non avere paura e, anzi, qualcosa da usare per costruire.
Gino Bartali e Fausto coppi costruivano le loro imprese.
Gli italiani, il loro Paese, seppure divisi, polarizzati in due fazioni.
Tifi Coppi oppure Bartali?
Un momento storico unico, quello, nel quale si saliva ancora più virtualmente che oggi in sella con loro durante le gare “trasmesse” via radio.
E le strade di rado erano asfaltate.
Parliamo di un’altra epoca e il confronto con l’oggi non avrebbe alcun senso.
Se non da un punto di vista ciclistico: Gino Bartali, al pari di Fausto Coppi, Fiorenzo Magni e di tanti altri nomi che hanno fatto la storia del nostro sport e del nostro Paese, ci ha insegnato cos’è il ciclismo.
Lui e i grandi come lui ci hanno insegnato che la fatica è un’alleata e che prima impari a conoscerla e ad apprezzarla e prima arriva la discesa.
Nell’epoca degli agi e dei lussi tanto grandiosi quanto invisibili e scontati in cui viviamo, uno come Gino Bartali, oggi, che cosa ci direbbe?
Ieri, pedalando sulle strade sterrate che ancora esistono intorno a casa, non ho potuto fare a meno di pensare a cosa fossero 100 anni fa.
Quale e quanta vita sia passata prima di me su queste sterrate.
Una volta c’era una ferrovia, ora una strada secondaria.
E forse anche meno che secondaria.
Le strade sterrate, che la moda di ora ci invita a riscoprire con il nome di gravel road, in realtà, hanno una storia molto più antica.
E ben più nobile.
Vi invito a considerarle un’eredità dei tempi di Coppi e Bartali e che per nessuna ragione andranno mai perdute.
Perché impongono un passo più lento e rispettoso.
Perché sono meno comode, come i tempi che furono.
Perché sono più anziane e meno belle da vedere.
Forse.
Di sicuro non nel mio caso e sono sicuro che questo pensiero è condiviso da molti di voi.
Le strade sterrate sono una benedizione.
Oggi sono 20 anni dalla morte di Gino Bartali e se c’è qualcosa che tutti noi possiamo fare è rivolgere a lui e a tutti i grandi ciclisti del passato un grazie, perché se amiamo tanto faticare e scoprire il mondo con la bicicletta è perché abbiamo avuto un grande maestro.
Chiedetelo ai nonni oppure rispolverate le loro parole e le loro storie oppure chiedetelo ai vostri genitori.
Ne esce il ritratto di un’Italia gloriosa che della fatica non aveva paura.
Anzi.
Io, noi tutti, in quanto ciclisti sentiamo quelle radici profonde che fanno sì che, scesi di sella, si senta quella gioia di vivere che il maestro ci ha insegnato.
Una storia che i più giovani non conoscono, ma che con la bicicletta, qualunque bicicletta, ora stanno iniziando a conoscere e ad amare.
Grazie Gino Bartali
“Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”
Gino Bartali
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Sull'autore
Simone Lanciotti
Dalla Mtb, alla bici da strada, passando per una e-Mtb e se capita anche una gravel bike. La bicicletta è splendida in tutte le sue forme e su BiciDaStrada.it, di cui sono il fondatore e il direttore, ci concentriamo sulla tecnica, sulle emozioni, sui modi per migliorarsi e soprattutto sul divertimento. Quello che fa bene al cuore, alle gambe e alla mente. Pedali agganciati!